Saturday, November 25, 2006

Il Bene e il Male.

Colloquio con André Glucksmann

di Francesca Pierantozzi


Il Vietnam, il Ruanda, Auschwitz, ma anche l'Aids, Sarajevo, Solidarnosc, il nucleare: non ha frontiere la filosofia «militante» di André Glucksmann in nome della vigilanza contro un Male inumano che «non può mai esserci estraneo». Per lui nessuna coscienza può mai considerarsi davvero sollevata, nessuna battaglia è mai davvero vinta. Se non teme di essere definito una Cassandra o, peggio, il filosofo del malaugurio, Glucksmann conserva tuttavia una fiducia necessaria nel pensiero, nello spirito critico e nella sua capacità di rivolta, di contrastare l'indifferenza e il volontario assopimento. Ex «nouveau philosophe», i maggiori avvenimenti dell'ultimo mezzo secolo sono stati altrettanti capitoli del suo percorso filosofico: dalla rivolta di Budapest alla guerra del Vietnam, dal maggio '68 alla dissidenza sovietica, alla guerra d'Algeria, ai boat people nel mare di Cina, Solidarnosc, la primavera di Praga, Vaclav Havel, e poi i movimenti pacifisti, la politica della dissuasione, il generale de Gaulle, l'integralismo, il riavvicinamento franco-tedesco, l'Europa. La filosofia - dimostra Glucksmann, col suo lavoro - non è soltanto un grande e compiuto sistema, non è solo etica o estetica, è azione nel mondo, conoscenza della storia, vigilanza, esercizio dello spirito critico. È sostegno ai dissidenti dell'est e ad Aleksandr Solgenitsin, è criticare la tradizione filosofica che dagli Illuministi porta a Hegel, Marx e Nietzsche per denunciare i totalitarismi rossi e neri. Nel «mondo felice» che crediamo di aver costruito per il nuovo secolo, lo spirito critico e la vigilanza sono sempre più necessari e sempre più in pericolo.

Il secolo breve si apre con una guerra mondiale nel 1914, si conclude con altre guerre, in Ruanda, nella ex Jugoslavia. Uno dei suoi primi libri, nel 1967, fu un saggio sulla guerra e su Clausewitz. Ancora oggi la guerra è al centro della sua riflessione.

Fu Aristotele a definire la filosofia come stupore, una definizione in sé non estremamente originale. Ma Aristotele disse anche qualcos'altro: che alla fine il filosofo arriva a stupirsi del suo stesso stupore. La riflessione consiste dunque nella scoperta di ciò che è stupefacente, è meravigliarsi di qualcosa che accade davanti ai nostri occhi, ma che rifiutiamo di vedere. Lo stesso si può dire della guerra. Mi sono stupito che ogni volta che è esplosa una nuova guerra, che nuove atrocità si sono compiute nel mondo, i commenti dell'opinione pubblica e dei suoi dirigenti siano sempre stati di meraviglia. Ancora oggi ci si chiede come sia possibile che accadano ancora gli orrori nel Kosovo, in Ruanda... Lo stupore «ufficiale», delle élite, continua a stupirmi. Perché in fondo mi chiedo come sia possibile che ancora ci si stupisca davvero di chi sgozza i bambini e squarta le donne. Come possiamo ancora stupirci: il Ventesimo secolo è stato il secolo delle inumanità.

La prima guerra mondiale non è però la guerra del Vietnam né la guerra nella ex Jugoslavia...

Quando ho cominciato a studiare la guerra non mi sono chiesto quali ne fossero le cause, ma perché la gente fosse ancora così disarmata, potesse ancora stupirsi. Nel 1967 riflettevo sulla nostra incapacità di pensare i conflitti successivi alla seconda guerra mondiale, in particolare i conflitti coloniali: la Francia attraversava la guerra d'Algeria, gli Stati Uniti il Vietnam. Oggi interrogo ancora questa nostra incapacità, questo accecamento, che è prima di tutto pratico, irrealista. All'epoca, per esempio, gli americani erano assolutamente sicuri di vincere la guerra: avrebbero ridotto il Vietnam in polvere. Osai allora avanzare qualche dubbio: scrissi che una sconfitta degli Stati Uniti era ipotizzabile soltanto prendendo in considerazione le strutture strategiche, descritte molto tempo prima da Clausewitz quando aveva spiegato perché Napoleone, che pure disponeva dell'esercito superiore, fosse perfettamente resistibile. Il caso degli americani in Vietnam riproponeva il caso di Napoleone in Spagna e in Russia: contro un esercito tecnicamente superiore può pararsi un esercito popolarmente superiore. All'epoca avevo entusiasmi che ho poi perso, ma mi sono sforzato di pensare lucidamente il problema, ponendolo in termini di rapporti di forza e non ideologici. Lavoravo sotto la sorveglianza universitaria di Raymond Aron: quando lesse il mio libro non fu assolutamente d'accordo con le mie conclusioni, ma riconobbe che si trattava di un'argomentazione fredda. Esisteva dunque una possibilità per la ragione di ragionare su fatti spaventosi, e di raggiungere una certa oggettività. Rileggere Clausewitz alla luce della guerra del Vietnam mi ha insegnato che esisteva una possibilità per il pensiero di affrontare i peggiori orrori ed errori di questo secolo.

E a più di trent'anni di distanza crede che si ancora possibile spiegare il Kossovo con Clausewitz?

Innanzitutto sono contento di constatare che l'uomo che criticai all'epoca, e che davvero era molto più potente di me, Robert McNamara, segretario della Difesa di John Kennedy, riconosce di essersi completamente sbagliato, di aver commesso errori contro la ragione. Ho fornito a me stesso la prova che un intellettuale che ragiona, che non ha alcun potere e che possiede le stesse informazioni di un lettore di giornali, può farsi un'opinione sensata e ragionevole su quello che accade. Questo mi ha confortato. All'epoca ero piuttosto dalla parte dei vietnamiti: se avessi scritto un libro sulla guerra del Vietnam e non sulle sue strutture strategiche avrei senz'altro commesso molti più errori. Ma sul piano dei rapporti di forza sono riuscito a non sbagliare: è stata la prova che si potevano analizzare questi problemi, mettendo il più possibile le ideologie tra parentesi. È stato decisivo per me.

La ragione ha provato a se stessa di poter analizzare i grandi eventi, ma questo non impedisce che la stessa ragione continui a mostrarsi inadatta a modificarne il corso.

Da una parte ho scoperto che era possibile non essere accecati da un fatto, nei limiti naturali delle possibilità di ciascuno e della quantità di informazioni a disposizione. Esiste poi l'analisi di quello che chiamo l'«accecamento», che consiste nel non riuscire a vedere una situazione, che pure la ragione potrebbe analizzare. Perché non vediamo? È la questione stessa della filosofia: come riusciamo a renderci volontariamente ciechi? E questo accecamento si riproduce all'infinito. Prendiamo la situazione attuale: esiste una letteratura americana sulla guerra che è ancora tanto edificante, dotta e cieca quanto quella dell'epoca McNamara, una letteratura che ci ripete che la guerra è pulita, chirurgica, tecnologica. È di nuovo la convinzione di McNamara: siamo i più forti, abbiamo le armi migliori. Ritrovo lo stesso errore: l'idea che l'onnipotenza tecnica consenta di governare il mondo. È un'illusione che i greci chiamavano hybris, la superbia, che non muore mai.

Se dopo duemila anni di storia e di filosofia continuiamo a ripetere lo stesso errore, a renderci volontariamente ciechi, non signifca che dobbiamo finalmente arrenderci davanti alla nostra incapacità di vedere?

L'accecamento è una tentazione permanente, per noi e per i potenti. Qualsiasi pensiero che la contraddica è la definizione stessa della filosofia. È Socrate che dice «conosci te stesso», che significa conosci i tuoi limiti, sappi che non sei onnipotente.

Ma è possibile resistere?

Quello che ho scoperto è innanzitutto la possibilità di ragionare su una situazione, su un fatto, un evento: dunque siamo capaci di una certa verità. In secondo luogo, ho scoperto che esiste una tendenza importante non soltanto in ognuno di noi, ma nello stesso pensiero moderno, a rendersi volontariamente ciechi. E che questo accecamento è legato al fantasma di onnipotenza, del pensiero e della tecnica...

Secondo il precetto di Socrate, lo ha scoperto anche osservando se stesso?

Credo di cedere a questa tendenza, ma nel senso inverso. Nella misura in cui penso di aver avuto ragione in alcuni momenti della mia vita, come quando sostenevo i dissidenti dell'est o le donne algerine, oggi sono sconfortato dal constatare lo scarso peso e i pochi effetti di quello che ho scritto, dei miei articoli, dei commenti, delle cronache. Per cinque anni ho scritto che era necessario un intervento dei paesi occidentali per interrompere i massacri nella ex Jugoslavia, gli articoli sono stati tradotti in tutta la stampa europea, ma non hanno avuto nessuno effetto. Questo sconforto sottindende la convinzione che quando si ragiona lucidamente si dovrebbe ottenere il consenso di tutti, anche di chi sta al potere. E quando questo consenso non si ottiene e si precipita nella disperazione, si condivide l'idea dell'onnipotenza del pensiero, in questo caso l'onnipotenza della «mia» lucidità. Certo, ho questa malattia come tutti. E attraverso momenti di depressione.

Dunque bisogna rinunciare a fare appello alla ragione. Basta con Cartesio, altro suo soggetto e oggetto di riflessione.

Cartesio è molto più complicato di quanto si creda. A dimostrazione della sua idea che il buonsenso sia la cosa più diffusa al mondo, Cartesio fornisce una prova che è talmente ironica da dover essere ricordata. Cartesio dice: nessuno si lamenta della propria mancanza di buonsenso, perché tutti sono convinti di possederlo. Tutti noi siamo condannati al buonsenso, semplicemente perché tutti noi siamo convinti di averne e nessuno pensa di essere cieco o pazzo. La prova che siamo ricchi di buonsenso è che siamo talmente folli da non renderci mai conto che ne siamo privi. Dovremmo riflettere molto su questo paradosso.

E lei è d'accordo con Cartesio?

Certo, è probabilmente la grande scoperta dei greci. Pensare che il buonsenso, la ragione, siano essenziali per la vita, definisce l'Occidente a partire da Atene. Il buonsenso è necessario perché rischiamo ogni momento di perderlo. È assolutamente necessario perché assolutamente fragile. Se l'hybris è il pericolo principale che ci minaccia, il buonsenso diventa la cosa più preziosa al mondo. Ma attenzione, buonsenso non è la presunzione di essere il più saggio, la ragione suprema: il suo significato emerge dal rapporto strategico con la follia, è la non-follia e non l'infallibilità, al contrario, è la coscenza acuta della nostra fallibilità.

Ma il buonsenso non esiste: non è questa la prova della Storia, in particolare del Ventesimo secolo?

La prova che esista una possibilità per il buonsenso e la ragione è, nel Ventesimo secolo, la caduta dell'impero sovietico. E questo è avvenuto per diverse ragioni, ma soprattutto per una, che è fondamentale: il lavoro del pensiero dissidente. In Occidente si preferisce mettere l'accento piuttosto sulla crisi economica, che avrebbe portato alla fine dell'impero: ma la crisi dell'epoca di Mikhail Gorbaciov fu senz'altro meno importante di quelle, per esempio, del 1920 o del 1937. O di quella attuale: la prova è che non pochi russi oggi rimpiangono il passato. La crisi degli anni Ottanta fu in realtà una crisi vissuta come una crisi: una crisi morale, ecologica, non soltanto economica. E se il popolo russo era cosciente di attraversare una crisi, è grazie al lavoro di demistificazione della coscienza russa svolto essenzialmente dai dissidenti, primo fra tutti Solgenitsin. Solgenitsin è la dimostrazione che qualcuno armato soltanto di una penna, che fa lavorare soltanto il proprio pensiero, detiene il poter di risvegliare le coscienze, di rivelare a se stessa un'opinione pubblica fino ad allora censurata e repressa.

Solgenitsin e la dissidenza non bastano tuttavia da soli a spiegare il crollo dell'impero sovietico.

Questo ragionamento è molto concreto: Solgenitsin ha influenzato un gran numero di persone che non la pensavano affatto come lui. Ha influenzato per esempio la moglie di Sakarov, che ha trasformato suo marito, il padre delle armi nucleari russe, di cui era convinto sostenitore dell'utilità. Il fatto che ci fosse qualcuno come Sakarov durante l'era Gorbaciov è stato decisivo. Gorbaciov era certo un riformatore, ma anche Krutschov era stato un riformatore: entrambi avevano in comune il fatto di essere al tempo stesso i capi del partito al potere e i capi della riforma. Contro di loro, non si poteva fare appello che a loro. Il solo punto di riferimento per la gente era questo «numero uno», della dittatura e della riforme. Questo ha sempre provocato una paralisi: era impossibile parlare contro Krutschov, perché Krutschov era quello che parlava contro Stalin. E alla fine Krutschov ha rivestito i panni di Stalin, bloccando il meccanismo. Con Gorbaciov avrebbe potuto succedere la stessa cosa. Ma un giorno la televisione trasmette una seduta del Soviet Supremo. Alla fine del discorso di Gorbaciov, qualcuno in sala leva la mano e chiede la parola, si alza e critica il grande capo. Davanti a tutti. Gorbaciov si rivolta contro di lui, molto duramente. Quell'uomo era Sakarov: per la prima volta in Unione Sovietica esisteva un polo di opposizione che non era il partito, ma un'opinione pubblica. E d'un tratto il prestigio assoluto del numero uno fu spezzato in due. Il leader veniva giudicato da qualcun altro, esterno, che era il potere di una nuova opinione pubblica.

Il buonsenso come motore della Storia?

Credo che il buonsenso, con tutta la sua impotenza, abbia comunque una straordinaria efficacia. La penna di Solgenitsin ha fatto moltissimo per distruggere l'enorme macchina comunista. E non si è trattato di altro che di un esercizio di buonsenso: Solgenitsin non ha avuto successo in quanto predicatore di un vecchio o nuovo Dio - anche se tutti sanno che lui è profondamente credente - ma in quanto spirito capace di esaminare i suoi stessi errori e di scoprire l'errore dell'errore, il segreto del gulag. Lui stesso lo ha detto: «è esaminando il mio stesso stalinismo da giovane, di giovane ufficiale, di giovane intellettuale, che ho potuto capire come funzionava». E la sua conclusione non è soltanto ispirata a questo metodo di buonsenso, di autoconoscenza, di autocoscienza dei suoi stessi errori, ma è anche nella sua efficacia. Dice Solgenitsin in quello che crede essere il suo testamento, quando viene arrestato dal Kgb: «voi non siete eroi, avete giustamente paura per le vostre famiglie, e io non ho che un consiglio da darvi, fate almeno una cosa: smettete di applaudire». Se tutti avessero smesso di applaudire, il regime sarebbe crollato, ed è esattamente quello che è successo. Questa è l'estrema forza del buonsenso quando arriva a esprimersi, e questo è qualcosa di facilmente reperibile in tutto il pensiero occidentale: è il demone di Socrate. A parte Montaigne, nessuno ha mai detto abbastanza che questo demone non era un'ispirazione positiva, non diceva a Socrate cosa bisognasse fare, diceva quello che non si deve fare.

Il demone socratico è il precedente filosofico del pensiero «debole»?

È un demone che ci ordina di fermarci davanti all'errore, all'orrore, al male. È fondamentale: dice quello che non bisogna fare, non quello che bisogna fare. È questo il buonsenso: è il riconoscimento del male come male. Il demone alimenta il dubbio in Cartesio. Ma non perché, come dice Vattimo, si tratti di un pensiero debole, al contrario è un pensiero molto forte, che si sente capace di riconoscere il pazzo come pazzo.

Qual è la sua definizione di «forza» del pensiero?

La mia idea della «forza» del pensiero si oppone a quella sostenuta da Vattimo e altri post-moderni, tutti più o meno sotto l'influenza di Heidegger. A mio avviso la forza dello spirito si afferma contro un avversario preciso: l'idiozia, la contraddizione inconfessata, le confusioni dell'hybris. La strategia della ragione consiste nel mettere i propri rivali in aporia, nel condurli a ripetersi, è il boomerang della maieutica socratica in cui l'interlocutore si batte contro i propri pregiudizi, cercando di rispondere alle antinomie che lui stesso produce. Il principio supremo che governa questa battaglia di sé contro sé è il principio di non-contraddizione, elevato a «numero uno» da Aristotele. Al contrario, gli apostoli del pensiero debole, ritengono che il compito del pensiero sia spiegare tutto, dar conto del perché definitivo di ogni cosa. Si sentono deboli perché credono a torto - come Leibniz - che il principio supremo che dà forza al pensiero sia il principio di ragion sufficiente. Si sentono deboli perché non arrivano a pensare come Dio, il quale è suscettibile rispondere di e a tutto. Si sentono deboli perché non sono onniscienti. Ritengo al contrario - con i greci e Pascal - che la forza del pensiero consista appunto nel non volere essere Dio, come dice Pascal, e a ragionare «da uomini puramente uomini», come dice Cartesio. I pensatori deboli sono soltanto teologi disoccupati, hegeliani infelici, marxisti disincantati che non si sono ancora rimessi dalle loro diverse delusioni.

Si unisce al Papa nel criticare il pensiero debole, come si legge nell'ultima enciclica del secondo millennio?

Ho letto con molto interesse l'enciclica. Ho l'impressione che ci sia una volontà generale di non analizzare il testo, che è invece folgorante, mi sembra che tutti sentano la necessità di situarlo in una continuità rispetto al passato e alla storia della Chiesa. E quando si sostiene che l'enciclica di Giovanni Paolo dice le stesse cose che dicevano Leone XIII o Pio XII, evidentemente il testo scompare. L'idea che invece questo testo cambi molte cose nella Chiesa, e nel rapporto tra la Chiesa e la filosofia, sfugge ai commenti «autorizzati» che sostengono una continuità tra i diversi «infallibili» che si succedono dalla morte di Cristo, e sfugge anche agli anti-papali, ai laici militanti, perché nello stesso modo ritengono che il Papa non possa cambiare, che non cambia opinione sulla contraccezione e l'omosessualità e che dunque le sue analisi di tipo piscologico siano fuori luogo. Io trovo al contrario che siamo davanti a un tono del tutto nuovo, che si tratta di un testo estremamente importante.

Una rivoluzione nella chiesa all'alba del terzo millennio?

È vero che è proprio della religione cattolica aver sempre voluto conservare un contatto con la ragione, fin da Sant'Agostino: si tratta di un bisogno originale di filosofia per lottare contro le sette, le gnosi e i movimenti eretici. Ma il Papa questa volta dice altro: dice che non esiste una filosofia ufficiale della Chiesa. E che persino San Tommaso non è il pensatore ufficiale. Qui c'è la rottura, non ancora abbastanza sottolineata dai commenti. Poi ci sono quelli che si sentono attaccati dall'enciclica, da Vattimo a Flores d'Arcais al francese André Compte-Sponville: quando il Papa critica il pragmatismo, lo storicismo o il nichilismo, non fa che riproporre le dispute interne alla filosofia. Qui non c'è nulla di originale.

Dov'è allora la vera novità introdotta da Giovanni Paolo II?

Innanzitutto la scala a cui pensa. Mentre tutti dicono che il Ventunesimo secolo sarà religioso, falsa citazione di Malraux, il Papa non lo dice, in primo luogo perché non pensa su scala del secolo, ma del millennio. In secondo luogo non dice affatto che il secolo o il millennio sarà religioso perché non oppone una fede che dovrebbe rafforzarsi a una ragione che dovrebbe essere modesta, non oppone una fede oppressa a una religione conquistatrice. Al contrario, dice che l'indebolimento della fede e della ragione procedono di pari passo. Non si può dire che se la ragione soffre, la fede vince: esiste un destino solidale. E il rischio è duplice: la fede può cadere vittima della superstizione, la ragione può diventare debole e faziosa. È un vero cambiamento di tono. Mi sembra di cogliere in questa enciclica una richiesta di aiuto, per quanto discreta, da parte del Papa, un appello alla ragione, a una ragione non cristianizzata. E non cerca affatto di recuperare la ragione nel suo campo: al contrario invita a studiare la filosofia prima della teologia. Ed è chiaramente detto che la filosofia non è teologia, che la ragione non è la fede. E infine non si può trascurare un altro passaggio importantissimo: il dialogo tra le religioni, scrive il Papa, deve passare attraverso la filosofia. È una rottura non solo con la tradizione, ma anche con il Concilio Vaticano II, per il quale le religioni dovevano parlarsi direttamente.

Vuole dire che questo pontificato segna una rottura con tutta la tradizione della Chiesa? Una fede debole contro un pensiero forte?

Il Papa non è certo diventato ateo... Ma è filosofo, al modo dei greci. Riferendosi direttamente a Socrate, Platone e Aristotele, il Papa restituisce il diritto di primogenitura a un pensiero anteriore e esterno alla rivelazione biblica, dunque da questa indipendente. Socrate non è cristiano, ma il cristiano deve «socratizzare» e praticare la conoscenza di sé prima di teologizzare. È una vera rivoluzione nella dottrina della Chiesa. Il Papa torna a queste origini, chiama «urgenza» e «sfida» la debolezza della regione e della fede. Il Papa sa bene che quando le religioni si sono incontrate in Libano, lo hanno fatto a colpi di kalashnikov, Sabra e Chatila sono il frutto dell'incontro delle tre grandi religioni monoteiste. Se il Papa sostiene che la ragione è necessaria per organizzare l'incontro tra diverse fedi, sottoindende che l'incontro senza ragione significa massacro.

Il Dio di Giovanni Paolo II è il Dio di Omero?

Il Papa reintroduce la preoccupazione del male. Platone aveva escluso dal pensiero filosofico il Dio d'Omero, un Dio capace di cattiverie e cambiamenti. Il Dio d'Omero è molto più inquietante del Dio di Platone, è quello che medita la fine dell'umanità. Questo perché? Soltanto per combattere le sette californiane? Oppure per avvertire che le guerre di religione cominciano di nuovo? Esiste dunque una purificazione originaria del divino che è un'esclusione del male, che viene sancita alle fonti della metafisica occidentale.

Ma non sarebbe ugualmente impossibile che in un'enciclica non si parlasse del male? Il male, il peccato, è presente fin dalle origini della Chiesa.

Ma quello che sottindende Giovanni Paolo II è che il male non è l'assenza di fede, ma può essere «nella» fede quando è senza ragione. Questo Papa ha sempre avuto un senso del male che è molto particolare se confontato con i principi del Concilio Vaticano II e in generale con il manicheismo dei suoi predecessori. Il male è un argomento molto serio per questo Papa.

Il diavolo torna in Europa grazie a Giovanni Paolo II?

Purtroppo l'Europa del Ventesimo secolo non ha avuto bisogno di Giovanni Paolo II per conoscere il diavolo. Diciamo che l'atteggiamento della Chiesa fino a oggi rispetto al male e ai mali del mondo può spiegare la decristianizzazione dell'Europa. Sono stato molto amico di un intellettuale cattolico francese, un cosiddetto gollista di sinistra, Maurice Clavel. Quando mi battevo per Solgenitsin, mi sostenne e mi appoggiò in modo straordinario. Ricordo un giorno che andai a trovarlo e stava pranzando con un gruppo di preti, molti erano preti «di sinistra», progressisti, ex preti operai, che avevano aiutato gli algerini. Ero giovane e un po' insolente e chiesi se invece di parlare sempre di Dio, non si potesse per una volta parlare del diavolo. Chiesi se c'era qualcuno che credesse nel diavolo: l'unico a rispondere positivamente fu Clavel. Credo che il diavolo sia davvero un argomento tabù per i cattolici. Dopo le giornate mondiali della gioventù, a Parigi, il quotidiano Le Figaro ha svolto un'inchiesta sul comportamento religioso dei francesi, in cui si chiedeva, fra l'altro, quale poteva essere una causa di abbandono della fede. La risposta di almeno il 40 per cento è stato il Ruanda, non la sessualità o la morale. Dunque se si vuole spiegare la decristianizzazione dell'Europa, uno dei grandi movimenti di questo secolo, è inutile ricorrere alla liberazione sessuale o alla contraccezione. Quello che spiega l'allontanamento dell'Europa dal Cristianesimo, e in particolare dalla Chiesa cattolica, è la prima guerra mondiale, sono i totalitarismi, i massacri attuali e l'incapacità della Chiesa di farvi fronte. Quello che da sempre si chiede a tutte le religioni è bloccare la violenza assoluta: non uccidere. Il primo conflitto mondiale ha dimostrato che la Chiesa, quando non benediva la guerra, era del tutto incapace di opporvisi, i cinquant'anni che seguono il 1940 hanno mostrato l'incapacità della Chiesa di contrastare i totalitarismi, la Chiesa europea davanti a Hitler, la Chiesa russa a Stalin. Il Ruanda è il genocidio che si svolge sotto i nostri occhi, si poteva interrompere, ma nulla è stato fatto, e la Chiesa cattolica porta non poche responsabilità. È questo a spiegare la decristianizzazione, non il divieto del preservativo.

Lei ha parlato di opposizione ai totalitarismi, di impotenza davanti ai massacri che si svologno sotto i nostri occhi. È stato tra i primi in Occidente a sostenere i dissidenti dell'Europa orientale. In un secolo dove non esistono più muri, dove i totalitarismi, almeno in Europa, sono stati sconfitti, la dissidenza ha ancora un lavoro da fare, è ancora possibile?

La dissidenza è stata una lotta non solo degli intellettuali, ma dello spirito, contro un regime totalitario. Noi non viviamo in un regime totalitario e dunque l'opposizione non può assolutamente essere dello stesso stile. All'epoca, quando riuscimmo a far passare l'idea che la dissidenza all'est era importante, la prima reazione degli intellettuali fu di rifiuto, e la seconda fu quella di considerare che quelli erano dissidenti in un regime arretrato, e che dunque i veri dissidenti dovevamo essere noi, a ovest, più moderni ed evoluti. Credo che oggi ci sia piuttosto un abuso di questo termine. In Europa occidentale non ci sono totalitarismi, e dunque le cose sono più complicate, ma non possono esserci dissidenti. Esiste una necessità di difendere e preservare lo spirito critico e questo non è facile né automatico, ed è anche vero che i partiti al potere hanno tutto l'interesse a offuscare la nostra vigilanza. Il problema è dunque la nostra capacità di preservare il buonsenso dalla tentazione di assopirsi, che è cosa ben diversa dalla tentazione di inchinarsi davanti alle dittature assolute. La tentazione che ci minaccia è piuttosto quella di inchinarci davanti ai nostri interessi. Credo che il pericolo proprio di una democrazia occidentale sia piuttosto lo «psicologismo», ovvero l'idea di vivere all'interno di una campana di vetro. La cosa più importante diventa sentirsi bene nel proprio corpo, e il pensiero che ne deriva è che tutti i problemi sono causati dal rapporto tra me e il mio io, che i problemi del mondo derivano dai cattivi rapporti con i genitori, oppure dalla povertà, oppure dal mancato funzionamento della protezione sociale. Insomma è l'idea che il male scaturisca da una sbagliata relazione con se stessi: basta correggerla, e tutto andrà a meraviglia.

È la cultura New Age?

Non soltanto. Quando alle elezioni tedesche il nuovo cancelliere Gerhard Schroeder dice che è ora di smettere di pensare agli errori della storia tedesca, che bisogna vivere senza complessi, significa che in fondo il male non è primordiale: se correggiamo i nostri problemi, se viviamo con gioia e bene, tutto andrà a posto. La caratteristica dell'europeo, da più di un secolo, è di vivere come il filosofo Pangloss del Candide di Voltaire, ovvero nel migliore dei mondi possibili, e di considerare che il male è una cosa del tutto secondaria, che può essere facilmente combattuta, e che è meglio per noi vivere nella nostra campana di vetro. Comprendiamo allora più facilmente come sia possibile meravigliarsi ancora quando, per esempio, esplode una guerra: all'interno della nostra campana di vetro non c'è posto per le guerre. Al contrario, dovremmo stupirci se gli avvenimenti penosi o drammatici non accadono. Questo è fondamentale.

Ma se la dissidenza è impossibile o non serve più, quali strumenti restano per sfuggire al migliore dei mondi possibili? Il nuovo secolo sarà quello del consenso generale o della politica dello struzzo, testa sottoterra?

La politica dello struzzo consiste nella certezza di vivere in un mondo dove tutto funziona normalmente bene e dove, se per caso si verificano delle difficoltà, queste naturalmente si appianeranno. Un esempio: Slobodan Milosevic. I leader dei governi occidentali sono andati a trovarlo e gli hanno detto di non comportarsi più in modo così selvaggio, gli hanno promesso aiuti e crediti. Dunque si sono basati sul principio che Milosevic fosse un uomo come un altro, e che di fronte ai soldi si sarebbe mostrato interessato. Milosevic ha capito perfettamente il funzionamento di questo meccanismo anche se lui non funzionava affatto come gli altri e al contrario era lui a farli funzionare. Ha avuto modo di verificare in diverse occasioni che più si comportava male, più gli venivano proposti aiuti e crediti, e dunque, naturalmente, ha continuato a comportarsi male. È la politica di Neville Chamberlain con Hitler, proseguita poi dai negoziatori francesi.

Come criticare questa politica senza dissidenza?

Non direi che è necessario essere dissidenti, quello che serve è soprattutto spirito critico. Non ha alcun carattere di coraggio o rischio di vita...

La vittoria in quasi tutti i Paesi europei di partiti socialdemocratici, accompagnata da una buona crescita economica, almeno in Europa, sembra aver favorito, per un po', visioni del futuro meno pessimiste. Questa Europa ottimista, e in fondo un po' orgogliosa, la preoccupa?

L'ottimismo non è necessariamente nefasto. Esiste in Europa una sorta di alternanza maniaco-depressiva, che è tipica del mondo occidentale, non soltanto socialista, tra un'euforia e un cieco ottimismo e uno stato depressivo provocato dalle difficoltà. I francesi, per esempio, vivono le campagne elettorali sulla frattura sociale ma subito dopo esplode l'euforia per la coppa del mondo, fino alla prossima crisi in cui si parlerà del dramma assoluto in cui versa la Francia. La classe dirigente francese ha imparato bene la lezione e usa questo meccanismo in modo estremamente ipocrita, sfruttandolo tanto per vincere le elezioni, tanto per non affrontare poi i problemi del dieci per cento della popolazione, che in effetti vive in grandi difficolà. Il discorso generale è più o meno questo: il futuro riserva a tutti quello che il presente riserva a questo dieci per cento meno fortunato, ovvero povertà, disoccupazione, miseria... Questo discorso ha il merito di impedire di occuparsi, subito, di questo dieci per cento in difficoltà, perché tanto, prima o poi, tutti si troveranno nella stessa situazione. Si verifica in questo modo uno sfruttamento delle disgrazie future della gente, che può così vivere tranquillamente in una totale depressione che la esime di occuparsi delle disgrazie di una minoranza, che al contrario si potrebbe benissimo aiutare. Questo è il vantaggio ottimista del catastrofismo: ci consente di vivere tranquilli. Vediamo la gente che dorme nella metropolitana, ma pensiamo che in fondo è il destino di tutti e si può distogliere lo sguardo... E ugualmente si chiede a quelli che arrivano al potere, eletti sull'onda della catastrofe e della frattura sociale, di non fare niente. Nessuna meraviglia, dunque, che i sondaggi rivelino che la Francia è il secondo paese più felice del mondo, dietro al Canada, in base all'insieme dei parametri di protezione sociale, tasso di disoccupazione, sistema sanitario...

Eppure i francesi sono al tempo stesso tra i più pessimisti al mondo.

Sì, ma è un atteggiamento molto ambiguo perché in fondo sanno benissimo di essere i più felici. E hanno trovato come condizione di sicurezza e non inquietudine il fatto di dichiararsi i «futuri» più infelici del mondo. Credo che nel rapporto euforia-depressione esista una sorta di economia segreta del doppio linguaggio dei felici europei. È una legge egoista. Quando Schroeder dice che l'Europa non deve essere più una necessità ma un desiderio, diventa un buon rappresentante di questo modo euforico di negare la realtà, sostituisce al principio di realtà il principio di piacere. È una sorta di filosofia implicita dell'Occidente, che i francesi amano in particolare, e che è stata uno degli argomenti elettorali di Schroeder. Credo che oggi ne siamo del tutto dentro, occidentalmente: è l'idea che il mondo non ruoti intorno ai coltelli che uccidono, intorno alla spada - come dichiarava de Gaulle e come diceva Eraclito, sostenendo che la guerra era il motore di ogni cosa - ma intorno al sesso. Questo significa che se abbiamo un giusto rapporto col sesso, abbiamo risolto tutti i problemi del mondo.

Il caso Clinton-Lewinski ha segnato la strada della politica nel mondo occidentale?

Rispetto al sesso si possono adottare due punti di vista: la liberazione o la proibizione. In entrambi i casi il sesso è considerato il punto d'appoggio di Archimede, che consente di sollevare il mondo, è il fantasma della felicità che aleggia sia nella casa dei conservatori sia in quella dei libertari. L'esempio tipico è stato appunto l'affare Clinton. Tutti gli avversari del presidente americano, democratici o repubblicani, hanno dichiarato in quel momento di non poter più mostrare i programmi televisivi ai propri figli. In fondo chiedevano che il presidente degli Stati Uniti fosse una sorta di surrogato di Gesù Cristo, o almeno un esempio edificante in materia di morale personale. Dunque emerge il principio che se i presidenti sono esempi di condotta sessuale, hanno fatto il loro dovere e tutti i problemi sono risolti. Si suppone dunque che i figli possano vedere in televisione, senza danni per la loro educazione, i bambini squartati in Ruanda e ascoltare il loro presidente Clinton dichiarare che se avesse fatto più attenzione all'inizio, quei bambini forse non sarebbero stati squartati. Ma è intollerabile che i nostri figli possano vedere e ascoltare in televisione che il presidente americano fa quello che fanno il 70 per cento degli americani. Tre gocce di sperma pesano di più di 500 mila o un milione di cadaveri tutsi. Ecco di nuovo tragicamente all'opera l'idea che il mondo sia perfetto tranne in un punto, la nostra educazione sessuale. Sul fronte opposto, quello dei sostenitori della liberazione sessuale, accade esattamente la stessa cosa: se esistono i dittatori - spiegano - è perché sono sessualmente repressi o malati. L'idea che il mondo ruoti intorno al sesso, è l'idea che la felicità sia a portata di mano e che sia sufficiente stare bene nella propria pelle, in armonia col proprio corpo, e tutti i problemi spariranno.

La diffusione dell'Aids ha modificato profondamente questa visione delle cose. È soltanto un caso che i giornali dedichino all'epidemia sempre meno spazio?

Anche da questo punto di vista, esiste una pericolosa sottovalutazione del dramma. Da entrambe le parti. Dalla parte dei professori di morale, che dicono che i preservativi non servono e mettono sullo stesso piano, in materia di catechesi, il «peccato» del rapporto sessuale e l'assassinio, visto che se si fa l'amore senza preservativo si rischia di uccidere un'altra persona. Mettere sullo stesso piano il peccato venale del commercio sessuale improprio e l'assassinio, l'omicidio, equivale ancora una volta a dire che il problema essenziale è quello sessuale, semplicemente perché di facile soluzione. Ma si sbaglia anche dall'altra parte, quella dei «progressisti», che organizzano manifestazioni contro l'Aids, considerando dunque che il virus Hiv sia un essere sensibile alle manifestazioni. Nei due casi esiste una sottovalutazione completa del carattere reale del male.

Perché?

Far agire lo spirito critico significherebbe scoprire e svelare la realtà delle parole. Le parole non appartengono alla sfera psicologica, ma hanno un loro peso, sono del tutto reali. Se esistono degli assassini in libertà, è perché non sono stati arrestati, non perché non vengono loro spediti dei volumi di Jung o di altri maestri della felicità del corpo. E questo ancora mi sembra proprio dell'Occidente: tanto il dissidente agisce in una società che naviga nel terrore, tanto lo spirito critico agisce in una società che naviga nella felicità. In questa società, il peccato di Clinton, che è un peccato soltanto rispetto a sua moglie, è apparso come qualcosa di molto più grave agli occhi dei senatori morali della crisi economica o del caos in Russia. La gerarchia delle disgrazie e dei pericoli è invertita per proteggere il nostro immediato benessere. È la straordinaria menzogna della coscienza pubblica. È qui che lo spirito critico mostra le sue debolezze, ma può anche provare la sua forza, perché può alleare realismo e morale, che non sono affatto opposti. Non è soltanto immorale pensare che sono più tollerabili i bambini sgozzati delle infedeltà coniugali con una segretaria, è anche irrealista. È immorale e irrealista l'idea che si possa paralizzare l'autorità politica degli Stati Uniti in un mondo in preda alla crisi economica, diplomatica, di civiltà, dove esplodono le bombe nelle ambasciate americane. È immorale e irrealista. Questa euforia, questa volontà di vivere nella fine della storia, dove tutti i pericoli e le guerre sono finiti, è questo il vero pericolo, non il pensiero unico, l'egoismo del mercato o il calcolo capitalistico. Siamo minacciati da una eccessiva mancanza di cinismo, idealismo, messianismo. Quando si osserva che gli americani sono capaci di restare incollati davanti alla tv per vedere la rovina organizzata del loro presidente e di relegare in un angolo la crisi della borsa, è la prova che il popolo americano non è affatto pragmatico e opportunista come si dice, ma che è al contrario un popolo idealista.

Invita a un maggiore cinismo?

Critico un'evidente incapacità di affrontare la realtà. Quando si ragiona sulla ex Jugoslavia, non si prende mai il tempo di riflettere sul fatto che si tratta di un regime che comprende strutture e apparati del tutto diversi dai nostri. I dirigenti occidentali ritengono che al potere in Jugoslavia siedano i loro «omologhi». E invece non sono affatto le stesse persone. Si tratta di individui formati in un altro modo, che hanno altre visioni, altri interessi, altre priorità.
Il nuovo vigore dei movimenti ecologisti e dei partiti «verdi» in Europa sembra da una parte poter esprimere questa maggiore esigenza di «realismo» e di attenzione ai problemi concreti. Dall'altra ripropone la tesi a lei non gradita dello «stare bene con il proprio corpo».
Esiste un'importante filosofia dietro questi movimenti, in particolare in Germania. Da una parte c'è il sentimento di catastrofe possibile, e questo è positivo, è l'aspetto realista dei verdi. Ma dall'altra parte esiste l'idea che queste catastrofi siano univoche: una volta eliminato il nucleare, per esempio, potremo tornare nella nostra campana di vetro. È l'idea che la catastrofe sia possibile, ma anche isolabile e definitivamente eliminabile. Ci troviamo davanti a un'impostazione manicheista: esiste un avversario, un diavolo - in questo caso, per esempio, il nucleare - che una volta eliminato ci consentirà di nuovo di vivere tutti felici e contenti. Questo catastrofismo ha dunque come rovescio della medaglia, una totale euforia e irresponsabilità.

È questo il vero pericolo per l'Europa?
Sì. E non è un pericolo nuovo. È la promessa classica di qualsiasi politico. La sinistra tradizionale ha sempre amato incolpare le duecento famiglie più ricche: se si sopprimono, saremo a posto. La destra tradizionale ha preferito scegliere come obbiettivi gli sporchi ebrei o oggi gli sporchi arabi: se li eliminiamo o li rimandiamo a casa, staremo a posto. È sempre il fantasma di un male che si vuole puntuale e assoluto, isolabile e sradicabile. Di questo manicheismo classico adesso esiste anche la versione verde.

Non è necessario e appunto realista identificare e isolare un male, un problema, per trovare una soluzione?

Sì, ma a condizione di isolarlo in modo giusto. Naturalmente bisogna distinguere: la disoccupazione non è il nucleare, e naturalmente non esiste un solo male. Il «male nucleare» non riunisce in sé tutti i mali della civiltà, il «male nucleare» in sé non è un male fisico, ma antropologico. Gli ecologisti sono preda di una pericolosa tendenza scientista: studiano i meccanismi pericolosi della produzione di energia nucleare, quindi indicano come sopprimerli. Una volta eliminata la possibilità di produrre energia nucleare, anche il pericolo è eliminato. Falso. In realtà il vero pericolo è l'irresponsabilità degli uomini. Non è un caso che la centrale di Chernobyl sia stata un pericolo ben più importante di qualsiasi incidente in una centrale francese. Esistono rischi di esplosione e incidenti ovunque, il nucleare - nessuno lo nega - è in sé una materia pericolosa. Ma non si possono ignorare i moltiplicatori di rischio particolari: la burocrazia, l'irresponsabilità e il servilismo ereditati dal comunismo.

Ma nemmeno si possono ignorare problemi più «oggettivi», come il trattamento delle scorie. Non rischiamo di consegnare ai terrestri nel nuovo secolo un pianeta radioattivo? Non è più giusto pensare ormai su scala del secolo?

Sì, ma bisogna evitare il pensiero monodimensionale: che Chernobyl esploda nella ex Unione Sovietica non è un caso. Gli antinucleari all'epoca hanno manifestato contro le centrali, ma mai hanno manifestato contro chi aveva moltiplicato i rischi, ovvero il regime russo. Sono stati i russi a capire che il problema ecologico era legato al problema sociale. Chernobyl lancia di fatto la rivoluzione anticomunista, ma solo i russi lo hanno compreso. È questa la debolezza degli ecologisti: concentrati sul nucleare, sui suoi aspetti «scientifici», non hanno saputo vedere l'ampiezza della catastrofe, e i russi sono stati lasciati soli a pensare che dentro Chernobyl c'era il fallimento totale del comunismo. Il nucleare, poi, è un pericolo ed è un prodotto della scienza moderna. Una volta distrutto il nucleare, ci sarà sempre una scienza moderna che conferisce a un numero sempre maggiore di uomini la capacità di distruggere l'umanità. Il nucelare è uno dei punti della grande scoperta del Ventesimo secolo: che l'umanità non è immortale e che questa capacità di suicidio è ormai insopprimibile. All'inizio, con la bomba atomica, erano non più di cinque gli uomini in grado di decidere, oggi, con il potere che la scienza conferisce all'umanità, il problema non è più soltanto il nucleare, ma la genetica, il sangue contaminato, le anestesie... L'assenza di responsabilità dei medici nell'affare del sangue contaminato mi pare del tutto assimilabile all'assenza di responsabilità delle autorità sovietiche rispetto al nucleare. È un accecamento che non colpisce soltanto gli altri, ma anche se stessi (il presidente dell'Ordine dei medici al tempo dell'affare del sangue contaminato in Francia, aveva subito un'operazione negli anni «sospetti» e non aveva mai pensato di sottoporsi a un test). Ancora una volta, non è un accecamento immorale, è un accecamento irrealista. Per questo gli ecologisti mi sembrano prendere le cose alla leggera se si focalizzano soltanto sul nucleare, e soltanto sui suoi aspetti fisici: il problema è molto più vasto, coinvolge la nostra responsabilità, in una situazione in cui la scienza ci conferisce sempre più potere, di fare il bene o il male, di creare e di distruggere. Perché è caratteristica della scienza essere il potere dei contrari, già Aristotele lo aveva capito. Non è semplicemente eliminando il nucleare che tutti i problemi saranno risolti: è un'idea folle come quella di eliminare le duecento famiglie più ricche, o gli arabi o gli americani. La responsabilità dell'uomo moderno davanti ai poteri che ha lui stesso creato con la scienza è una questione definitiva, ineliminabile.

Eppure il problema della responsabilità non è sentito come il più pressante dalle nuove generazioni. Che non peccano certo di mancanza di realismo: gli studenti chiedono lavoro, più formazione...

Il problema della scuola è un problema antico. Nel momento in cui le società europee hanno finito di essere tradizionali, ovvero non sono state più cullate da balie o preti incaricati di trasmettere ai giovani le tradizioni, le scuole e le università sono diventate luoghi strategici. A partire dal momento in cui l'europeo si riconosce come essere sradicato, ovvero in rottura con la sua educazione tradizionale, la sua religione e la sua mitologia, l'educazione diventa fondamentale. Si ripete quello che è accaduto ad Atene quando la città è diventata l'asse commerciale e culturale della Grecia: allora si pose il problema dell'educazione, della paideia. Perché gli ateniesi rifiutarono di agire come gli spartani, ovvero nel continuo rispetto della tradizione. Questo problema strategico non ha mai trovato una vera soluzione: l'università tedesca, esempio di tutte le altre in Europa, non è stata veramente un successo se si pensa che il 95 per cento di questi istituti si schierarono dalla parte di Hitler, pur essendo le università più illuminate e le più scientifiche del pianeta.

Cosa intende con sradicamento dell'essere europeo?

Lo sradicamento è una condizione che si è mondializzata, a partire da Atene, all'Inghilterra, alla Francia fino a comprendere tutta l'Europa. È la rottura con la tradizione, l'idea che non si può essere condotti dalle idee, gli ideali e i valori del passato. Ai conservatori francesi cito spesso de Gaulle, che nel 1965 dichiarava che i francesi che abitavano sulla loro terra e vivevano dello stesso lavoro per tutta la vita, nella stessa casa, non esistevano più. De Gaulle diceva che eravamo tutti degli sradicati. È a partire dalla coscienza di questo sradicamento che sono nate le università. Oggi il lavoro non funziona più per dare radici, la mobilità è un sistema in continua espansione, il servizio militare, altro mezzo di «radicamento», sta scomparendo, e l'istruzione è in crisi. La soluzione liberale, che consiste nel legare l'università all'economia, mi ha sempre divertito: se negli anni Settanta avessimo legato l'università all'economia dell'epoca non saremmo stati certo meglio preparati a lavorare con i computer. L'economia cambia troppo velocemente, e anche la tecnica, perché l'università e l'istruzione possano star loro dietro. La cultura è soprattutto una flessibilità: non è comprendere una tecnica, ma comprenderne molte allo stesso tempo. La soluzione socialista, che consiste nel produrre professori e far ruotare l'università su se stessa, non è ancora una volta una soluzione, perché conduce a una calcificazione del sistema e perché i migliori allievi dei professori non sono necessariamente gli spiriti più alti. Le due soluzioni attualmente disponibili nelle società occidentali, adattarsi all'economia o diventare museo, sono inadatte.

L'Europa del nuovo secolo è allora condannata a una incomprensione cronica del suo stesso sviluppo, a un fatale anacronismo?

Il problema di fondo è di civiltà. Il grande problema dal Ventesimo secolo viene posto, da Paul Valéry quando sostiene, dopo la grande guerra, che le civiltà hanno imparato che sono mortali. È vero, è la grande scoperta. Nel Novecento la mortalità era quella degli individui, ma il genere umano era eterno, grazie a Dio o alla scienza. Nel Manifesto di Marx si dice, ma la frase è sempre stata trascurata, che le classi in lotta o periscono entrambe o una uscirà vincitrice. La frase è diventata d'improvviso d'attualità con il fascismo, quando si è visto, soprattutto in Germania, che le due classi in lotta potevano benissimo distruggersi l'un l'altra. È la svolta socialdemocratica del congresso di Bad Godesberg, che dice: meglio negoziare i rapporti di classe, perché spingere la lotta fino in fondo può significare l'annientamento. Questa è una vera novità, per la sociologia come per la scienza. Quello che sfugge a Valery è che in fondo tutte le civiltà si sono viste come mortali, tranne quella europea del diciannovesimo secolo. L'Europa si è creduta immortale, si è creduta alla fine della storia. E questo è il grande pericolo: mancare la nostra mortalità. Nel Ventesimo secolo, la mortalità non è arrivata soltanto dal possibile raffreddamento del sole, o da una cometa che può schiantarsi sulla terra, ma dal nostro stesso potere. Un potere sempre più allargato. La sorte del mondo e dell'umanità è nelle mani dei più piccoli: anestesisti, medici, responsabili di centrali nucleari, di quelli che avvelenano i pozzi o le metropolitane, dello squartatore da record del Ruanda... Il mondo sarà sempre più urbano, nel 2050 tre quarti della popolazione della terra vivrà in enormi metropoli, come Città del Messico o Il Cairo, vivremo in un modo esplosivo. L'idea che possa essere soltanto il nucleare a distruggerci è un'idea un po' piatta e un po' stretta.

Ma non potendo tornare ai nostri verdi pascoli del passato, come lei ama ripetere, sarà necessario costruire una civiltà cosciente della sua mortalità. Partendo da dove?

Leggendo Shakespeare e Pascal, per esempio. C'è tutta una cultura occidentale che ci dice che viviamo sull'orlo di un baratro, esiste una parte del pensiero occidentale che considera l'umanità mortale, anzi, credo che la civiltà occidentale sia una delle poche a poter pensare fino in fondo la mortalità dell'umanità. Certo gli dei possono sopprimere gli uomini per punirli, ma per la civiltà occidentale gli dei muoiono con l'uomo. Esiste dunque l'idea di un nulla assoluto che è una scoperta dell'Occidente. L'Occidente è capace di pensare un male che non annuncia null'altro, è la peste di Tucidide, sono le guerre di religione di Montaigne, sono i drammi di Shakespeare. Di fronte a questo si definiscono alcune regole e comportamenti, che si chiamano prudenza, democrazia, stato di diritto, che rappresentano altrettante barriere all'annientamento reciproco. Il fondamento delle leggi della cultura in Occidente non è un bene comune, è un male comune. La capacità di pensare i mali comuni per definire condotte comuni è proprio dell'Europa occidentale. Quello che si chiedeva ai re, era difendere il popolo dai tre grandi flagelli, la guerra, la carestia e la peste, e non far regnare il bene. Se esistono gli spiriti critici è grazie a Shakespeare, Eschilo e Montaigne. Non dimentichiamoli.